
Ma perché gli africani emigrano?
Per governare i flussi migratori dai paesi africani è necessario comprendere le cause che li determinano. A partire da una popolazione in crescita e da processi di sviluppo lunghi e complessi. E senza dimenticare le responsabilità dei paesi occidentali.
Le dinamiche demografiche
Il dibattito sul franco Cfa e sugli interessi della Francia in Africa, già affrontato da lavoce.info con un fact-checking e con l’articolo di Massimo Amato, ha avuto il merito di portare l’attenzione sulle cause delle migrazioni. Per evitare di ridurre la discussione a facili slogan (come, per esempio, “l’immigrazione è colpa della Francia”), vale la pena approfondire la questione. Naturalmente, le cause delle migrazioni sono molte e molto complesse, ma possiamo provare a individuare tre elementi chiave: demografia, economia e processi di sviluppo.
La popolazione africana residente nel continente ha superato il
miliardo già nel 2010, e nel 2015 si attesta vicino a 1,2 miliardi, più
del doppio rispetto a quella dell’UE. Nel 2050, secondo le previsioni
Onu, sarà più che raddoppiata, superando i 2,5 miliardi (e sarà circa
cinque volte la popolazione UE). La tendenza diventa ancora più
significativa se confrontata con l’inverno demografico europeo: l’Unione
ha circa 500 milioni di cittadini, destinati a una sostanziale
stagnazione.
Nonostante la maggior parte dei flussi migratori dai paesi africani
riguardi movimenti “intra-africani” (i più grandi attrattori sono
Sudafrica, Congo e Costa d’Avorio, ma anche paesi vicini alle zone di
crisi come Sud Sudan, Gibuti, Mauritania), è evidente che la crescita
della popolazione avrà ripercussioni sui fenomeni migratori. La Nigeria,
ad esempio, supererà i 400 milioni di abitanti nel 2050. Altri cinque
paesi oltrepasseranno quota 100 milioni.
Tabella 1 – Previsioni demografiche nei paesi africani

Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Nazioni Unite/Population Division
Interessi europei e non solo
La polemica sul franco Cfa ha riportato alla ribalta il tema del
colonialismo (e neo-colonialismo), come causa principale del mancato
sviluppo africano e, indirettamente, delle migrazioni. In effetti, gli
interessi delle potenze europee in Africa hanno radici profonde, ma la
questione è molto più complessa di quanto il dibattito di questi giorni
potrebbe far pensare.
Le prime fasi del colonialismo delle nazioni moderne risalgono al
periodo dei grandi navigatori del 1500 (principalmente spagnoli e
portoghesi). Successivamente, per tutto il 1800, le potenze europee
fanno letteralmente a gara per spartirsi le risorse africane,
ridisegnando a tavolino i confini di paesi che prima erano suddivisi in
centinaia di regni (spesso rimescolando gruppi etnici in guerra tra
loro). In questa fase, senza dubbio, Regno Unito e Francia giocano un
ruolo predominante. Anche dopo la decolonizzazione, completata solo
negli anni Settanta del 1900, gli stati africani hanno subito i forti
interessi delle potenze occidentali, prima con la contrapposizione
Usa/Urss e poi attraverso l’iniziativa delle grandi multinazionali, che
spesso vantano fatturati superiori al Pil dei paesi in cui operano e
possono negoziare l’accesso alle materie prime con un rapporto di forza
nettamente sbilanciato.
Dai primi anni Duemila, il principale attore in Africa è diventato la
Cina, con un approccio molto concreto: risorse naturali in cambio di
infrastrutture (strade, dighe, stadi, ferrovie, porti). Durante il terzo
Forum on China-Africa Cooperation del 2018 è stato annunciato un nuovo
piano triennale da 60 miliardi di dollari, in linea con quanto stanziato
nel triennio precedente. Pechino ha trovato in Africa un enorme mercato
per le proprie aziende manifatturiere: il valore del commercio
bilaterale tra Cina e Africa è passato da poco più di 10 miliardi di
dollari nel 2002 a 220 miliardi nel 2014.
Tutte queste dinamiche rappresentano indubbiamente un macigno sulle
economie africane, limitando lo sviluppo di quei paesi. Peraltro, anche
le politiche “interne” ai paesi occidentali hanno un impatto
sull’economia africana: ad esempio, metà del bilancio Ue è dedicato al
sostegno all’agricoltura, costituendo di fatto un freno alle
esportazioni africane.
Il rapporto tra sviluppo e migrazioni
Secondo un’opinione molto diffusa, l’aumento degli investimenti e del livello di benessere in Africa dovrebbe comportare automaticamente una riduzione delle migrazioni. In realtà, molti studiosi hanno dimostrato come il meccanismo si realizzi solo nel lungo periodo. Anzi, nell’immediato, lo sviluppo agisce addirittura come stimolo alle emigrazioni: aumentando il reddito disponibile, infatti, è più facile sostenere il costo di un investimento così grande come l’emigrazione internazionale. E crescono pure il livello di istruzione, l’accesso alle informazioni e persino le scelte di matrimonio e di fertilità, tutti fattori di spinta delle migrazioni.
Va aggiunto che nei primi anni Duemila l’aumento del Pil di vari paesi africani aveva portato molti economisti a parlare di “miracolo africano”, prevedendo una strada simile a quella delle Tigri asiatiche. In realtà, quella crescita si è rivelata molto fragile, troppo legata al prezzo delle materie prime e poi frenata da fattori politici e strutturali. Ciò dovrebbe insegnare che i processi di sviluppo sono molto lunghi e complessi.
“Aiutiamoli a casa loro” dovrebbe dunque essere un auspicio mosso dalla solidarietà tra stati, non dal mero interesse di ridurre gli arrivi. Lo slogan andrebbe poi “riempito” di dettagli che rispondono a quesiti elementari: “quanto li vogliamo aiutare”? “Come”? “Attraverso che canali”?
Sul “quanto”, l’Italia e gli altri paesi occidentali sono ben lontani dall’obiettivo stabilito nel 2000 per gli aiuti pubblici allo sviluppo (0,70 per cento del Pil; l’Italia è allo 0,20 per cento). Considerando che ogni decimo di Pil vale circa 1,7 miliardi, c’è da chiedersi quale governo potrebbe oggi proporre un aumento. Proprio in questi giorni, anzi, uno studio di Openpolis e Oxfam ha evidenziato il taglio ai fondi per la cooperazione contenuto nella legge di bilancio 2019.
In più, andrebbe stabilito il “come”: gli aiuti sarebbero gestiti direttamente dai governi locali (con il rischio di finanziare dittatori e guerriglieri), dagli organismi internazionali multilaterali, o dalle tanto vituperate Ong?
Se non rispondiamo a questi interrogativi (innanzitutto, come comunità internazionale, ma anche come Italia), il dibattito rimarrà fermo a slogan superficiali e non porterà nessun beneficio reale, né in Africa né in nel nostro paese.
[Fonte: lavoce.info – 01 febbraio 2019]